
I don't speak about silence
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White books, white pages, mirrors of absence capable of reflecting impalpable yet inescapable entities. Is it
an intimate obsession,a maniac practice that involves the quest for permanent ,unalterable silence? In this
sphere the essence of Rubino’ s search can be recognized. But then the Word paradoxically arises, it
merges with entities that are specific, palpable, and present: object-words, they nevertheless convey
silence, and the idea of absence. That silence has an oriental meaning: far from being mere emptiness, it is
a sort of ethe-real and diaphanous ripeness. That ripeness absorbs all with no distinctions (because the
single parts already contain the germ of the whole), and states the impossibility of time sequence, of a
“becoming” that is not already “ Being” . The three parts of the exhibition (White pages, Mort-Amour,
Written,on the body) do not imply a numerical progression: they are interchangeable. The first phase could
be the last one, the second one could be the first and so forth, just like the pages that the artist in his
imagination has numbered, where “number sixty is number two, or number fifteen, twenty-seven or
ninety-three, without worrying with consequences, because in a frenzy you do not care for consequences” .
The three phases show the process of creation, that according to its very essence does not follow a
chronological development but just limits itself to being. The whole project involves the artist’ s
relationship with art and life, pointing out a way of relating and interpreting that is based on the endless,
continual passage from the sphere of the soul to the sphere of the body. The symbiosis that binds them
together prevents any clear distinction, so that both polarities are present in every single work, where the
soul and the body prevail in turn, each of them containing the germ of the other.
Sabrina Zannier, Maggio 1996
Libri bianchi, pagine immacolate, specchi dell’assenza capaci di riflettere presenze impalpabili ma
ineludibili. Si tratta forse di un’intima ossessione, di una pratica maniacale che impone la ricerca di un
silenzio inalterabile? L’essenza della ricerca di Rubino è ravvisabile in questa dimensione, ma poi
paradossalmente il Verbo emerge, si cala in specifiche corporeità, tangibili e presenti: parole-oggetto, che
però veicolano sempre il silenzio e il principio dell’assenza. Quel silenzio di valenza orientale, che non è un
vuoto bensì una pienezza eterea e diafana. Quella pienezza che, inglobando il tutto senza puntuali
distinzioni tra le singole parti (perché queste già contengono in nuce la globalità), dichiara l’impossibilità di
una sequenza temporale, di un divenire che non sia già l’Essere. I tre tempi della mostra (Pagine Bianche,
Mort-Amour, Scritto sul Corpo) non delimitano una progressione numerica, sono intercambiabili: la prima
fase potrebbe essere l’ulti ma, la seconda divenire la prima e così via, esattamente come le pagine
immaginariamente numerate dall’artista, dove “la sessantesima è la numero due, o la numero 15, oppure
la 27 o la 93, senza occuparsi delle conseguenze, poiché nel delirio non ci si occupa delle conseguenze”. I
tre tempi visualizzano il processo creativo, che nella sua stessa essenza non segue uno sviluppo diacronico
ma si limita a essere. Tutto il progetto chiama in causa il rapporto dell’artista con l’arte e con la vita,
indicando una modalità di relazione e di lettura fondato sul perpetuo passaggio dalla sfera dell’anima alla
sfera del corpo. La simbiosi che unisce entrambe determina l’impossibilità di una netta cesura, tanto che
ognuna di tali polarità è presente in ogni singolo intervento, dove di volta in volta predomina l’anima o il
corpo contenendo in nuce l’altro.
Sabrina Zannier, Maggio 1996
Pagine Bianche
E’ la fase che pende sul versante del Pensiero, dell’Assenza, della Spiritualità, già emergenti in sottili
simbologie, in elementi compiuti che annunciano la concretezza del pensiero pensante. Pagine Bianche
allude propriamente all’impalpabilità dell’essenza, alla necessità di concederle una dimensione altra, di
traslarla nel regno dello spirito, di elevarla alla sacralità attraverso il lume di una conoscenza che affida al
dubbio la sua forza propositiva. In questa fase, infatti, assi stiamo a una sorta di tentativo in atto: quello di
trattenere, di racchiudere, di registrare ciò che vive nell’impossibilità di essere afferrato, se non mediante la
discesa in un micro corpo simbolico. In questo caso, però, Rubino inserisce una sequenza diacronica, quella
scandita dalle tre diverse registrazioni nell’installazione Registrando il Silenzio, dove la prassi in atto
evidenziata dal titolo diviene emblema tentativo citato sopra. La registrazione del silenzio porta con sé il
senso dell’impossibilità, indica un paradosso, ma in nome di quella globalità alla quale aspira, l’artista pare
traslare l’etimologia greca para (oltre) - dòksa (opinione) nel suo del contrario, cioè nella logicità di
un’affermazione illogica. E lo fa attraverso un percorso graduato, che permette a ognuno di noi di toccare
con mano il silenzio registrato. Dalla necessità di zittire la parola, quindi la più lampante negazione del
silenzio (“My voice is your voice but now tacet ’), ci conduce alla quiete della scrittura che, prima della
propria divulga zione, è una silente trascrizione automatica del pensiero (“Scrivere è come tracciare un
percorso senza fine con il silenzio. Così ora il silenzio è la mia mente”). Da qui, poi, la piena immersione nel
pensiero, dove l'apparente nulla det tato dal silenzio annuncia l’infinita dimensione embrionale del
possibile. Quattro elementi sono quattro scatole di plexiglass trasparente, sono le diverse declinazioni del
corpo e dell’anima, della vita e della morte, della memoria, del tempo, perduto e ritrovato; sono l’indice
della purezza insita in ogni singolo elemento, ma anche delle infinite contaminazioni che la trasparenza di
ogni dimensione è pronta a ricevere ed emana re. La disposizione dei contenitori sulla parete simboleggia
una scala, dell’ascesa verso l’impalpabilità dell’aria-pensiero o della discesa verso la cenere-morte del corpo
e anche del pensiero perché l’uno non può prescindere dall’altro e vice versa. Sulla cenere la traccia
dell’espressione C’ est tout porta con sé il principio della totalità e della convivenza degli opposti. Sia nella
lingua francese che in quella italiana, infatti, “è tutto” significa basta, fine, ma anche “qui c’è tutto”, quindi:
la fine, la morte contiene tutto ciò che è stato, anche la potenziale rinascita, l’ascesa verso lo spirito. Questa
la dimensione emergente in Praedica Verbum, dove il senso magico della sospensione è dato dai tre cuscini
poggianti su altrettante mensoline che restano coperte da questi oggetti morbidi ed eterei, impreziositi dal
broccato che allude quasi a una veste sacrale sulla quale affondano i libri bianchi, i libri del silenzio e del
possibile. Libri numerati non per suggerire una sequenza temporale e spaziale ma per puntualizzare il
mistero dell’escatologia insita nell’essenza di ogni cosa, che conduce per l’appunto al destino finale delle
stes se. Se da un lato il lume acceso delle candele assume una connotazione sacrale, dall’altro indica il
processo di consunzione del corpo fisico, la labilità della luce e l’urgenza di coglierla nel suo divenire.
Mort-Amour La spiritualità e il pensiero trovano in questa fase maggiore oggettualizzazione, divengono
vera e propria installazione ambientale, praticabile fisicamente, come già accade in Registrando il Silenzio.
Ma ora entra in campo l’ambiguità del Doppio, dell’Altro da Sé, dell’immagine allo specchio, della relazione
che si instaura tra la cosa e la sua riproduzione, tra il corpo fisico e il pensiero che nasce innanzi al rimando
dello stesso. Rapporti complessi e articolati, che mettono in luce infinite stratificazioni polisemiche, ma che
nelle due serie di armadietti in plexiglass confluiscono essenzialmente in tre situazioni che, attraverso
diversi ele menti simbolici, convergono sulla duplice identità dell’Io prigioniero e dell’Io affrancato. Al
centro c’è sempre il rimando a una presenza corporale: in Self-Portrait la foto con il busto di Rubino, la
gabbia e la rosa bianca; in Mort-Amour un braccio femminile vestito da un guanto rosso che entra nel vaso
avvicinandosi alla rosa. A sinistra e a destra gli oggetti sono presenti nella loro fisicità, prima come
contenitori chiusi ma ventilati verso l’esterno - una gabbia che contiene uno specchio per catturare il
soggetto e un vaso trasparente che contiene il guanto quale potenziale pelle del corpo - poi aperti o
scoperchiati. In Self-Portrait la porta della gabbia è sollevata, libera l’uscio alla rosa, già fattasi, nel
precedente trapasso, “dimora angelica”, come la vuole Rainer Maria Rilke. Come ha scritto Cacciari,
“angelica è la dimensione dell’essere in cui le determinazioni, che nelle altre creature si danno
separatamente, si articolano giustapponendosi, risuonano simultaneamente; in cui l’antinomicità della
creazione si manifesta polifonicamente”. In Mort-Amour il vaso scoperchiato ha concesso il volo alla pelle
corporea, al guanto di quella mano che ha lasciato le tracce del pensiero: la superficie vitrea è chirografata,
con tanto di cancellature e correzioni, sia sul primo piano che sul fondo, quasi si trattasse di due pagine
unite dalla circolarità di una lettura che si muove dettando il ritmo di una danza pendolare. L’installazione
che porta il titolo di questa fase è una sorta di altare, un trittico della contemplazione in cui la linfa vitale e
il sotteso umore mortale corrono in simbiosi lungo il broccato delle pareti per poi estendersi a terra, fino
alla gabbia, posta sul punto estremo del manto candido, all’inizio di quel percorso che dalla conoscenza di
noi stessi ci conduce all’in contro. L’uscio dell’installazione è dato dallo specchio: da lontano ci restituisce la
nostra completa immagine fisica, mentre nel cammino verso l’opera ci concede la visione di un solo
frammento, fino alla sola visione del lavoro, che però sappiamo di aver attraversato con il fisico, ora
presente in assenza. Ciò che resta della nostra persona è il pensiero e la ricerca di un’immagine altra capace
di restituircela.
Scritto sul Corpo E’ lo svelamento di un’identità che resta sottesa nelle fasi precedenti: il ritratto dell’artista,
quello di suo padre e quel lo di sua figlia Martha sono immagini somiglianti, che non alludono ai legami di
parentela bensì al doppio e trino esistente in ognuno, con le proiezioni nel passato, nel presente e nel
futuro, con la polarità maschile e quella femminea, a incarnare simbolicamente il principio del doppio, della
specularità con un Altro da Sé che si svela essere parte integrante del Sé. Gli sguardi sono sempre diretti
all’obiettivo, all’osservatore, non sono introspettivi, guardano l’Altro per trovare il proprio esserci. Gli
oggetti trattenuti - la vaschetta con il blu oltremare, la gabbia con la rosa bianca - e gli indumenti-pelle del
corpo sono gli stessi che punteggiano le altre fasi della mostra, tutti innalzati a chiave di lettura del pensiero
pensante e del pensiero trascritto, per l’appunto “scritto sul corpo” (dal romanzo di Jeanette Winterson):
appoggiato ai fianchi di Martha, inciso nel plexiglass e nel vetro, sempre ricco di cancellature e
ripensamenti perché tutto ciò che ci attraversa e ci trafigge, nel dolore e nella gioia, lascia anche le tracce
delle negazioni, delle piccole morti, culle di successive rinascite. Due letti rossi puntualizzano il luogo del
pensiero, un luogo fuggito alla de-materializzazione per assurgere all’abitabilità, una zona franca, dove
l’anima non ha appartenenze, dove la scrittura, il silenzio e la mente si danno come un percorso senza
soluzione di continuità. E’ lo stesso luogo già presente nei letti bianchi realizzati in precedenti installazioni.
Ma ora il candore ha lasciato il posto alla dimensione fisica, alla passione, alla sofferenza, al rosso carnale e
viscerale, a tutto ciò che forse, prima, Rubino relegava nel sotterraneo della sua arte o nella soffitta dei suoi
pensieri. Un luogo, dicevo, che si proietta poi nelle tre lavagne bian che e nelle tre lavagne rosse; ancora
pagine, ora non più bianche ma nere, scritte di bianco e di rosso: sono i testi che accompagnano tutto il
lavoro dell’artista, a volte più razionali, altre volte rosseggianti di trasporto emotivo. Differenza che non
appare sempre legata ai due colori della chirografia perché il doppio è sempre nell’Uno, nell’io che si versa,
con sottili mutazioni e trapassi, ora in una sfera ora nell’altra, come del resto avviene in tutti i tre tempi
della mostra, connotata da un perpetuo travasamento dal corpo all’anima e dall’anima al corpo.
Sabrina Zannier







